
«Nel 1992 Mogilevič organizza una riunione strategica con i principali capi russi della prostituzione all’Atrium Hotel di Budapest e fa una proposta: investire quattro milioni di dollari guadagnati con il business della prostituzione aprendo altri locali Black and White nell’Est Europa. Don Sëmen recluta ragazze dell’ex Unione Sovietica, procura loro dei lavori di copertura e le fa lavorare in questi club. Si occupa anche della loro protezione attraverso un gruppo di bodyguard. Il business funziona: le ragazze sono belle e fanno un sacco di soldi.»
«Quando un malavitoso ungherese […] comincia a collaborare con gli inquirenti e a fare il nome di “Don Seva”, la risposta è inequivocabile. Nel pieno centro di Budapest esplode un’autobomba che uccide lui, il suo avvocato e due passanti, ferisce una ventina di persone, riducendo la via frequentata di turisti a uno scenario di devastazione bellica. Un attentato inedito per violenza indiscriminata, un avviso esemplare che scuote l’opinione pubblica. Si dice che siano stati i russi, ma non il compassato biznesman (trad. uomo d’affari) da oltre un quintale.»
(Roberto Saviano, ZeroZeroZero, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 2014, Milano, p. 315 e p. 317)
«Un’autobomba è esplosa nel centro di Budapest. Tre persone, due uomini e una donna, sono morte sul colpo, mentre un’altra è deceduta durante il trasporto all’ospedale. L’identità delle vittime non è ancora sta resa nota. L’ordigno era stato installato su una Mercedes, che è saltata in aria poco prima di mezzogiorno in via Aranykez presso la zona pedonale della Vacy utca, tradizionale punto d’incontro e di shopping, frequentato anche da cittadini arabi, molti dei quali dediti al cambio clandestino di denaro. Secondo le prime informazioni, potrebbe trattarsi di un regolamento di conti all’interno della comunità turca nella capitale ungherese.
L’esplosione avrebbe colpito i numerosi clienti di un fast food McDonald’s che si trova nella strada, colpiti da schegge di vetro mentre consumavano il pasto. Lo scoppio ha provocato l’incendio di altre due auto, rapidamente domato dai vigili del fuoco. La deflagrazione è stata molto violenta e ha mandato in frantumi vetrine e finestre nel raggio di 100 metri. L’esplosivo era a bordo di una Mercedes nera che si presume appartenere a un commerciante turco. Potrebbe trattarsi quindi di un regolamento di conti tra bande rivali che operano nel commercio, come già avvenuto in altre occasioni.
Il capo della polizia di Budapest, Attila Berta, ha raggiunto il luogo dell’esplosione ma non ha voluto rilasciare dichiarazioni. La polizia ha intanto isolato l’area, dove stanno accorrendo decine di ambulanze e vigili del fuoco. Il governo ha offerto una ricompensa di 5 milioni di fiorini (circa 40 milioni di lire) per chiunque darà notizie utili a catturare i responsabili.
L’autobomba di oggi è l’ultimo episodio di un’escalation di violenza criminale a Budapest, dove bande mafiose russe, romene, ucraine, turche e arabe si contendono il controllo delle attività illegali. In aprile, nella stessa via Aranykez, un turista finlandese era rimasto ferito in una sparatoria, e dal ’91 a oggi sono 140 gli attentati dinamitardi commessi nella capitale.»
(la Repubblica, 2 luglio 1998)
Considerando il fatto che io e la mia famiglia avevamo lasciato la città tre anni prima, non posso ricordarmi l’episodio riportato da Roberto Saviano in ZeroZeroZero. Tuttavia, possiedo qualche reminiscenza su fatti simili. Più che altro qualche diapositiva un po’ sfocata che ha ancora la forza di starsene bene aggrappata all’ippocampo.
Ricordo i mafiosi russi all’Hotel Helia, dove papà ci portava in piscina durante l’inverno. Ricordo i loro ventri gonfi, quasi fossero in procinto di scoppiare. Ricordo i capelli impomatati, così radi da lasciare comunque intravedere un principio di calvizie. Ricordo gli asciugamani che quasi non riuscivano a coprire i corpi nudi deformati dall’ostentazione. Ricordo le loro bocche avide pronte a ingurgitare qualsiasi cosa. Ricordo gli anelli d’oro e i rotoli di banconote tenute insieme con lo spago, sempre pronte quando si trattava di pagare il conto. Ricordo i loro occhi, tranquilli, espressione della consapevolezza di essere al sicuro.
Ricordo gli scagnozzi posti fuori dai locali notturni, invisibili quanto riconoscibili.
Ricordo anche gli italiani, cosa credi. Ricordo le pizzerie gestite dai clan; non farò i nomi, per carità, ma ricordo ancora molto bene dove si trovano. Ricordo il padrone di una di queste, che sembrava essere uscito da un film di Scorsese sulla malavita italo-americana. Ricordo le ragazze che lo accompagnavano, conigliette appena uscite dall’ultimo film porno (il mercato di punta, allora come adesso) e che lui sosteneva fossero le sue figlie.
Ricordo che una mattina di autunno, dalle parti di Deák Ferenc tér (pieno centro, Pest), il traffico era bloccato. Ambulanze, vigili del fuoco, caos. Una colonna di fumo si alzava da un’auto. Ricordo lo sguardo preoccupato del papà.
«Mi sa tanto che oggi dovrò fermarmi di più in ambasciata», disse alla mamma. «Tranquilla, mi faccio riaccompagnare».
Quel giorno arrivai a scuola con qualche minuto di ritardo, come tanti altri miei compagni. Il papà tornò appena dopo cena. Ora non so dire cosa successe veramente, ma se il tutto aveva coinvolto l’ambasciata italiana doveva essere qualcosa di grosso.
E.
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