
skkstories_54
Luce rossa.
Le dita tamburellano sul profilo del volante.
Luce verde.
Il piede è saldo sulla frizione. La mano destra impugna il pomello del cambio, ingrana la prima.
Ti possa venire un colpo, vecchio.
Nella macchina davanti, seduto al posto del conducente, c’è lui: il vecchio col cappello. Ogni mattina lo trovo qui, stesso semaforo e stessa ora, neanche avessimo sottoscritto un tacito contratto. Sempre la stessa dinamica, scatta il verde e lui non parte. Se ne sta tranquillo a bordo della sua Panda color verde dai contorni evidenziati da un filo di ruggine, il motore EURO -3 che esala una nube tossica che mi entra nei filtri dell’aria. Non valgono a niente i miei colpi di clacson e le mie bestemmie, lui non si scompone. Lascia passare una decina di secondi, e poi parte a tutto gas in prima, col motore che sfoga tutta la rabbia dei suoi venti chilometri orari scarsi. A questo punto la nostra strada si divide, ma solo perché devo svoltare a destra. E sì che qualche volta ho anche provato dei tragitti alternativi, in teoria più corti, non fosse che il traffico mattutino li attanaglia rendendoli impraticabili e motivo di ritardo. Allora mi rassegno, e tra un colpo di clacson e una bestemmia seguo quello che è diventato un rituale. A volte lui alza il braccio per mandarmi a quel paese, in risposta abbasso il finestrino e mi sfogo. Nulla di davvero tragico, solo una routine entrata a far parte della vita d’ufficio.
5, 4, 3,… Ok, ci siamo.
Alzo delicatamente il piede dalla frizione, bilanciandolo con una leggera pressione sull’acceleratore. Il motore si fa sentire, ma la Panda verde rimane ferma.
Tutto normale, solo un secondo di scarto.
Do un colpo di clacson. Il cappello rimane immobile.
«E allora?» urlo, non facendo caso al finestrino abbassato.
Le vetture più indietro danno inizio a una sinfonia di trombe, io do il ritmo. Metto il braccio fuori dal finestrino, dito medio in evidenza tra i suoi fratellini tutti rannicchiati in segno di rispetto verso il più potente di loro.
«Allora, coglione, muoviti!»
Il verde lascia il posto al giallo, e nel giro di un paio di secondi torna il rosso.
Proprio oggi che devo essere in ufficio in anticipo. Ah, ma adesso mi sente.
Mi slaccio la cintura e scendo, lascio la portiera aperta. Sul sedile del passeggero ci sono solo la borsa da lavoro, vuota non fosse per qualche fotocopia, e il sacchetto del pranzo, nulla di davvero importante.
«Allora, coglione, cazzo ti è preso?»
Il vecchio è impassibile, lo scarico della Panda riversa sull’asfalto qualche goccia di benzina.
Bel bidone che ti sei scelto, e subito realizzo che può trattarsi di un malore. Non l’ho mai visto in faccia, ma sicuramente avrà il doppio dei miei anni, se non il triplo. A quell’età gli infarti sono come le caramelle per un bambino, inaspettati e potenzialmente numerosi. Controllo di avere il telefono in tasca, non sia mai mi serva per chiamare i soccorsi. La batteria è carica? Bene.
Avanzo verso la macchina. Arrivato a un passo dalla portiera, non posso fare a meno di pensare che un catorcio simile non dovrebbe circolare. Non tanto per il motore EURO -3, ma la ruggine presente su ogni bordo potrebbe portarlo a essere classificato come potenziale untore di ogni genere di male esistente. Avrei paura a toccarlo, non fosse che sono sicuro di essere a posto con le vaccinazioni.
Semaforo ancora rosso, ho circa la metà del tempo. Il vecchio è fermo, le mani aggrappate al volante, cappello bel calcato sul capo e contornato da una fila di capelli bianchi, occhi impegnati a scrutare chissà cosa oltre il parabrezza.
«Ehi!» urlo senza ottenere risposta. Busso con le nocche sul vetro. «Ehi, tutto bene?»
Lui gira la testa, gli occhi seguono il movimento finché eccoli concentrati sui miei. Un azzurro, ghiaccio, nel quale riesco quasi a immaginare il numero di pulzelle casa e chiesa che ai tempi ci si sono perse dentro. Le labbra rese sottili dagli anni si deformano in quello che dovrebbe essere un sorriso.
«Ehi!» continuo a picchiettare. «Perché non è partito? Va tutto bene?»
Lui continua a fissarmi, occhi acquosi, finché non decide di abbassare il finestrino. Piano, però, come del resto il moto della sua vita.
«Oh, finalmente ci sentiamo» lo incalzo, ma lui non mi dà il tempo di proseguire.
«Dimmi, giovane.»
«Eh, “dimmi giovane”, tutto a posto lì dentro? In famiglia tutto regolare?»
«Ah, sì» risponde lui, serafico.
«Bene, sono felice per lei. Allora, perché prima non è partito?»
Lui ricomincia a fissare la strada, poi rigira il capo verso di me. «Sai come si dice, no?! Chi va piano va sano e va lontano.»
Ah, i cari detti popolari…
«Sì, peccato che non tutti possiamo prendercela con calma. C’è chi deve andare a lavorare…»
«Ah, caro,» mi interrompe, «io alla tua età saltavo i fossi per il lungo.»
«Cosa c’entra, scusi? Senta: questa è una strada, questo è un semaforo, ha presente o devo farle un disegno? Quando quella luce, sì proprio quella, diventa verde, si deve partire.»
Sento una lieve vertigine. Il caldo è tanto e io non lo sopporto, senza contare gli effluvi tossici che sto respirando a pieni polmoni. La voce del vecchio mi riporta al mondo.
«Caldo, eh?! È proprio vero che non esistono più le mezze stagioni.»
Basta! Non lo sopporto più.
«Senta, finora ho fatto tutto il possibile per essere educato. Se ora che scatta il verde non si leva dai coglioni, io questo catorcio di merda glielo riduco a brandelli, ha capito? E se non dovesse bastare, non sarà un problema tirarla giù e cambiarle i connotati, lei e i suoi cazzo di proverbi.»
Appoggio la mano destra sul tettuccio verde, pronto a darmi da fare. Lui non si scompone, anzi sembra essere divertito dalla cosa.
«Quanto nervosismo, giovane. Lasci che le dia un consiglio: chi di spada ferisce, di spada perisce.»
Faccio per aprire la portiera, ma non riesco a muovermi. La mano rimane salda sul tettuccio. Le gambe anchilosate, i piedi appiccicati a un asfalto così bollente da sciogliere le suole delle scarpe da ginnastica e ustionarmi le piante dei piedi. Cerco di saltare via, ma ogni singolo muscolo rimane flesso nella sua posizione di partenza. Sbigottito, provo ad attirare l’attenzione degli altri guidatori ma invano. Questa improvvisa paralisi mi ha bloccato il respiro a metà.
Il vecchio, compiaciuto della cosa, dilata le palpebre. Le pupille, prima circolari, si moltiplicano in tanti piccoli ovali che prendono a navigare in un oceano di iceberg color del cielo.
«Ricorda, giovane: chi di spada ferisce, di spada perisce.»
Detto questo, molla il volante e con la mano destra si alza il cappello. La pelle del capo rimane attaccata ai bordi in un connubio di filamenti elastici che si staccano con un rumore di frusta man mano che il copricapo si allontana. Dalle ossa parietali e frontali rimaste scoperte, circondate da una melma viscida in cui si mischiano pelle ancora calda e capelli, fuoriescono dei tentacoli ognuno con vita propria. Serpi minuscole che prima si beccano fra loro, poi inquadrano il bersaglio: sono io, hanno fame di me. Provo ancora a racimolare la forza per allontanarmi, i conati di vomito cercano la loro strada verso l’esterno, ma la paralisi è più forte. Non riesco nemmeno a smettere di guardare, le palpebre trasformate nelle saracinesche di un supermercato aperto ventiquattr’ore su ventiquattro. Lenti e inesorabili, i tentacoli mi avvolgono il cranio. Sento che sto per soffocare. Nel frattempo, il vecchio ha rovesciato la testa di sbieco. La lingua gli scivola fuori dalla bocca, nero antro marcescente, e rimane aggrappata al labbro inferiore come una sanguisuga dondolando a destra e a sinistra.
Con tutti i pensieri ancora in moto, sento che alcuni tentacoli mi sono entrati nelle narici, risalgono l’osso nasale e distruggono l’ultima barriera che li divide dall’obiettivo. Morso dopo morso, il mio cervello di arrende.
Buio.
Apro gli occhi, li richiudo. Ripeto l’operazione. Un sonoro rutto, memoria di un conato, e ricomincio a respirare. Metto a fuoco: il vecchio è ancora davanti a me, sguardo beato dall’altro lato della portiera. Ingrana la prima e dà gas. La Panda verde mi sfreccia davanti alla pericolosissima velocità di venti chilometri orari, il motore che cerca di sopportare lo sforzo massimo a cui è sottoposto.
È verde, devo muovermi.
Mentre percorro i pochi passi che mi separano dalla mia macchina, subisco una caterva di insulti resi in parte incomprensibili a causa dell’effetto Doppler. Tempo di risalire, chiudere la portiera e il semaforo passa da giallo a rosso. Le automobili dietro la mia, qualcuna almeno, sono riuscite a superarmi con delle manovre azzardate, giubilo e gaudio per chi percorre la corsia di sinistra. Subisco una buona dose di proteste, ma non ci faccio caso. Il cambio in folle, il motore preso dal borbottio dell’attesa. La vecchia borsa da lavoro c’è ancora, lo stesso si può dire per il sacchetto della spesa. Bene, non è cambiato nulla.
Prima di allacciarmi la cintura, mi piego in direzione del vano portaoggetti. Lo apro. Dentro, oltre ai vari documenti riguardanti assicurazione, bollo e revisione, c’è un cappello, il mio cappello. Lo afferro con dita tremanti, avendo cura di chiudere il portaoggetti. Lo accarezzo, qualche colpetto per togliere i pochi fili di polvere e capelli rimasti aggrappati alla lana, e lo indosso. Assaporo la sua morbidezza a contatto con i capelli più corti. Farà anche caldo, ma niente riuscirà a dissuadermi dall’indossare questa piccola meraviglia di artigianato.
Scatta il verde, ma non parto. Subito riprende il concerto di clacson, diretto magistralmente da tanti maestri d’orchestra provetti. Se c’è una cosa che ho imparato quando sono andato in pensione è che chi va piano va sano e va lontano. La vita è troppo breve per perdersi nella frenesia quotidiana. Molto meglio godersi ogni momento, scandendo ogni azione e dedicandogli il tempo necessario per il suo espletamento.
Qualche secondo ancora, poi ingrano la prima. Sfreccio verso il domani alla velocità di venti chilometri orari, il motore al limite della sopportazione. Senti qua, il mio bolide.
Chi disprezza compra, decisamente.
«Heaven, I’m in heaven,
And my heart beats so that I can hardly speak
And I seem to find the happiness I seek
When we’re out together dancing cheek to cheek.»
E.
(soundtrack: Fred Astaire – Cheek to cheek)
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