Racconto di Natale

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«Chi vuole il caffè?»
Da una parte all’altra del tavolo, le mani si alzano senza indugio. La padrona di casa, sicura della risposta, si è già alzata. Mentre si dirige in cucina, sorelle e nuore le chiedono se vuole una mano. Un gesto senza alcuna intenzione, in realtà. È risaputo che la preparazione del caffè spetta alla padrona di casa.
Il suo lui scosta la sedia, si alza, qualche passo traballante ed è al mobiletto dei liquori. Ne tira fuori due o tre bottiglie e torna al tavolo con sorriso trionfante. Anche qui, la consuetudine prende lo spazio che le spetta di diritto: in rapida sequenza vengono poggiati sul tavolo un amaro dei frati ((«Quello buono fatto in montagna» ti assicura), una grappa («È quella buona del vicino») il cui sentore alcolico è un macigno in grado di rivoltarti la bocca, e per le signore qualcosa di più leggero come può essere un liquore alla liquirizia o al cioccolato.
Senti che un cicchetto è proprio quello che ci vuole. Non sei più abituato a sostenere i pranzi in famiglia, in cui il numero delle portate va di pari passo alla pesantezza che ti schiaccia lo stomaco dopo una carrellata di antipasti (giardiniera sempre compresa), tre primi in cui regna sovrana la pasta all’uovo e otto secondi serviti su piatti spalmati di burro, perché non sia mai che qualcuno torni a casa con la fame. Per non parlare dei dolci, scolpiti in burro e farina in egual dose.
Pesantezza, sì, ma il pranzo in famiglia è sempre una buona occasione per ritrovarsi. Se, come me, vivi lontano dal centro familiare, queste mangiate servono affinché i parenti ti manchino un po’ meno. Un modo come un altro per sentirti attaccato alle tue origini, per risentire la tua cadenza e il tuo dialetto e, ovviamente, per aggiornarti sulle ultime novità che riguardano la tua terra. Anche se per poche ore, ti senti parte di quell’ambiente; e la cosa ti fa stare bene, anche perché sei lontano dalle preoccupazioni quotidiane legate al lavoro e a tutto il resto. Sei così in pace con te stesso che anche il classico «Allora, quando ti sposi?» non ti dà fastidio, anzi rispondi con ironia cercando di rassicurare il parentame.
La moka da quaranta gorgoglia sul fuoco di due fornelli. Il caffè è pronto. In tutta la casa si diffonde l’aroma inconfondibile del tostato delle grandi occasioni, tanto che anche il nonno ridà segni di vita alzandosi dalla poltrona eletta a sacro trono per la pennichella pomeridiana.
La padrona di casa fa il suo ingresso in sala. Le mani reggono un vassoio lungo più o meno un metro e mezzo, simile a quelle tavole usate dai camerieri delle birrerie di Praga per portare quanti più boccali possibile. Le tazzine ondeggiano pericolosamente ma la presa è forte, addestrata da anni di riunioni familiari. Tintinnio di piattini e cucchiaini che neanche la venuta di Babbo Natale è in grado di recare tanta gioia nei cuori.
Regola vuole che il vassoio non venga poggiato a tavola, pena la decapitazione. Uno a uno gli ospiti vengono serviti, e i pranzi più audaci vogliono che la cognata faccia il giro reggendo la zuccheriera d’argento.
Tutto ciò fa parte di un rito. Il caffè a fine pasto è il solo in grado di tenerti in vita, l’unico caposaldo contro un pomeriggio fatto di collassi sulla superficie morbida più vicina (anche il tappeto va bene); sempre che non si voglia fare compagnia al nonno, allora l’orchestra di contrabbassi imbraccia gli archetti per suonare un adagio fatto di diminuite rombanti.
Il nonno, a volte anche la nonna, sfodera la concezione propria del rito diluendo il caffè in una quantità mastodontica di grappa capace di annullare l’amarezza della vita. «Così ti spurga anche le arterie» dice, e ha ragione. Ti invita a provarlo ma tu, memore di quella volta in cui hai evitato solo per un pelo che ti si riproponesse il pollo coi peperoni, declini con un sorriso e opti per l’amaro dei frati («Quello buono fatto in montagna» senti ripetere).
Caffè e amaro hanno la capacità unica di quietare ogni fitta provocata dal troppo cibo ingurgitato. Sempre che non ti facciano correre in bagno. Stavolta va bene, realizzi, e allunghi la mano per afferrare il borsello del tabacco.
«Aaah! come lo fai tu il caffè» commenta il nonno in direzione della nuora. Lei sorride e finalmente riesce a sedersi per godersi la sua tazzina, meritato riposo prima di cominciare a pensare ai piatti da lavare.
Filtro tra le labbra, estrai una cartina dalla confezione, quand’ecco che la zia parte con la solita frase a effetto: «Be’, avete sentito di quel marocchino? Quello che fatto l’incidente da ubriaco-drogato-fumato e ha investito la sorella-gemella-figlia-della-cugina-della-nuora-del-vicino-di-casa-del-panettiere mentre portava a spasso la bambina alle due di notte?»
Da lì, il putiferio.
Tuo zio le dà man forte: «Sì, sì. E una volta fermato non hanno potuto fargli niente.»
«Oh signur» la nonna si mette a braccia conserte reprimendo un brivido.
«Pensa te in che mani siamo!» se ne viene fuori un altro zio. «Nemmeno la polizia può fare niente a ‘sti animali.»
«Be’, sì,» salta fuori un cugino, «non possono fare niente nemmeno se ti entrano in casa. Diobbono, l’altro giorno sono entrati in casa di Pincopallocaio e non è servito a niente chiamare i carabinieri. Sono arrivati dopo mezz’ora.»
«Ah sì, è proprio così» un altro dal fondo della tavola alzando la voce. «E sai cosa gli hanno detto i carabinieri? Che se proprio vuoi fargli qualcosa, a ’sti marocchini, devi prenderli, gonfiarli di botte e lasciarli in strada.»
«No, no, così non funziona» salta fuori il prozio. «Devi ammazzarli, caricarli in macchina, fare qualche chilometro e lasciarli in qualche fosso. Ma lontano da casa, eh?! Che se no ti beccano.»
Il tempo di finire di arrotolarti la sigaretta e si è già passati a un altro tormentone, il sempre verde “questi vengono qua e se ne stanno al bar tutto il giorno”. Vorresti rimanere almeno per il “i terremotati nelle tende e gli immigrati negli hotel”, ma decidi di farne volentieri a meno. Le mani ti fremono, la lingua scalpita per prendere un po’ d’aria. Tuttavia, scosti la sedia e ti alzi in piedi. Rovisti nelle tasche in cerca di un accendino, quando ti senti rivolgere un: «E tu? Tu che sei per il multiculturalismo, che ne dici?»
Senti gli sguardi dei presenti tutti su di te. Mille risposte ti passano per la testa, ma l’espressione atterrita del nonno ti fa desistere. Quegli occhi stanchi sembrano dire una cosa sola: «Nemmeno ai miei tempi era così. Mi spiace, nipote.» Fissi per qualche secondo l’autore della domanda, tronfio nella convinzione di averti messo nel sacco dall’alto della sua terza elementare e una casa costruita evadendo qualche tassa qua e là. La convinzione che “quando c’era lui si stava meglio” gli ha gonfiato le mascelle, sebbene quel periodo non l’abbia vissuto.
«Io penso che andrò a fumare» annunci senza far trasparire alcuna emozione. Le espressioni di sufficienza dei presenti ti urlano in faccia il loro «Ah, beata e spensierata gioventù», solo che ormai hai trent’anni e la gioventù te la sei lasciata alle spalle da un bel pezzo. Sei indipendente, ora, e hai già imparato come va il mondo.
Non appena chiudi la porta, senti che il vociare riprende con un fragore e subito il pensiero va a quando le cose non erano così. Quando per stare bene con sé stessi bastava trovarsi in compagnia e farsi una bella mangiata, senza vomitarsi addosso ritornelli preconfezionati. Un vano tentativo di ripulirsi la coscienza mettendo a nudo un mondo in cambiamento, concentrandosi solo sui piccoli orrori e tralasciandone gli aspetti positivi. È un po’ come quando i vecchi si ritrovano e la conversazione verte inevitabilmente sugli annunci mortuari: un modo per confermare a sé stessi di essere ancora vivi, di averla scampata un’altra volta. Qui è la stessa cosa, solo che si conferma solo la bestia portata in grembo da ogni essere umano.
Allora pensi che sarebbe una buona idea tagliare i ponti, anche dal punto di vista tecnologico. Basta “buongiornissimi” e “augurissimi” affiancati dalla solita “immaginina indignata” scalpitante odio nei confronti di politici, negri e omosessuali. Basta bacheche Facebook colme di notizie false fabbricate col solo fine di aumentare il consenso elettorale. Basta condivisioni compulsive di qualsiasi puttanata rivolta a un popolo arrabbiato.
D’un tratto vorresti risentire i classici «Allora, quando ti sposi?» e gli immancabili «Quando ti laurei?» e «Come va col lavoro?», tormentoni di un tempo in cui l’opinione era qualcosa che contava, e i discorsi sulla politica erano merda da evitare perché se no si finiva a litigare. Tempi in cui, se studiavi, eri l’orgoglio della famiglia.
Nell’ultimo sbuffo di fumo, li guardi dalla finestra. Il discorso non è cambiato: tutti sanno tutto di tutto, ancora e ancora.
Il nonno è l’unico fuori dal coro. Sta tornando alla poltrona. Le gambe che tremano dallo sforzo. Ti vede e per un istante si ferma, rivolgendoti un cenno di saluto. L’aria stanca di chi ne ha avuto abbastanza. Tu gli rispondi con un sorriso malinconico.
Io non vivo vicino ai miei parenti, ti viene da pensare, e forse è meglio così.
E.
(soundtrack: Sister Sledge – We Are Family)