
«Gli uomini si lavano come sanno, medicano le loro ferite come sanno, trovano pertugi in cui insinuarsi, silenziosi, in punta di piedi, pur di non incontrare se stessi, nemmeno per caso.»
(Daša Drndić, Trieste: un romanzo documentario, Bompiani, Milano, 2015, pp. 425-426)
Devo ammettere che mentre leggevo Trieste non avevo alcuna idea su come l’avrei recensito. Ero sicuro che ne avrei parlato, anche perché mi stava colpendo parecchio, ma non sapevo come affrontarlo. Una volta arrivato al passo riportato qui sopra, tutto è diventato cristallino insieme alla consapevolezza che i 2.200 caratteri di Instagram non erano sufficienti.
La particolarità di Trieste: un romanzo documentario (Daša Drndić, 2015, Bompiani) risiede nella sua definizione: non è né un romanzo storico né un saggio con narrazione lineare, bensì un insieme di ricordi fittizi, testimonianze e documenti reali narrati a partire dalla tragedia personale di un personaggio che pagina dopo pagina sembra respirare insieme a noi. Lei è Haya Tedeschi, nata a Gorizia il 9 febbraio del 1923 da una famiglia ebrea convertita al cattolicesimo, una signora ormai anziana che non ha ancora perso le speranze di ritrovare il figlio nato e rapito nel 1944.
La mia prima difficoltà risiedeva nella narrazione utilizzata dall’autrice. Tutto sembrava sparso alla rinfusa, come se la mente di Haya non fosse lucida. Leggevo delle origini della sua famiglia, di prima guerra mondiale, di migrazioni attraverso l’Italia fascista e dello scoppio di un’altra guerra, eppure non riuscivo a trovare il filo logico che teneva insieme le informazioni ricevute. Più che altro non riuscivo a spiegarmi il titolo, visto che la storia si svolgeva in varie città italiane (Albania compresa) e non certo a Trieste.
Una volta arrivato all’8 settembre 1943, però, ho capito: quello che fin lì avevo interpretato come un documentario un po’ raffazzonato, in realtà era solo l’attacco per contestualizzare lo svolgimento; e una volta compresa la tecnica, non ho faticato a individuare le conclusioni. Per questo motivo ho deciso di suddividere questa recensione nelle parti basilari di un qualsiasi testo dotato di senso, ovvero attacco, svolgimento e conclusioni.
Mi sembra quasi di sentirti: «Va bene questo preambolo, ma com’è ‘sto libro?»
Andiamoci piano. Se avrai pazienza, ti assicuro che alla fine di questa recensione vorrai leggerlo.
1. ATTACCO
Gorizia non è una città come le altre, e il suo nome testimonia le numerose culture che nel corso della storia hanno lasciato un pezzo di sé: dallo sloveno gorica (collina) diminutivo di gora (monte), un toponimo comune in Friuli in seguito al ripopolamento operato da genti slave dopo le devastanti incursioni ungare del IX secolo. Una città sempre mista ma mai divisa, nemmeno dalla dominazione austriaca, finché nel 1947 il trattato di Parigi non tracciò i confini della nuova Jugoslavia includendo al loro interno una parte di abitato (da allora Nova Gorica) e favorendo così la costruzione di quello che sarebbe passato alla storia come il Muro di Gorizia.
Qui inizia la storia di Haya Tedeschi, figlia di una famiglia in cui si parla italiano, tedesco e sloveno e che, dopo la prima guerra mondiale, si sposta tra Italia e Albania come fosse un segnalibro utile per seguire l’evoluzione del regime fascista e del suo razzismo di matrice coloniale.
Trieste, dal canto suo, non è una città da meno, e basta indagare sulle origini del nome per rendersi conto di come le sue colline siano sempre state terra di mescolanza: da una parte c’è chi sostiene il nome Tergeste di origine preromana (formato da terg, ‘mercato’ in antico illirico e lingue slave, e da -este di origine venetica), mentre dall’altra si pensa al romano Tergestum (formato da ter, ‘tre’, e gestum bellum, ‘fare guerra’) con riferimento alle tre battaglie che le legioni di Roma dovettero combattere per conquistare il territorio.
Le strade di Trieste sono da sempre un calderone in cui i profumi della cucina friulana, austriaca e slovena si mescolano per creare un connubio irresistibile. Un paradiso in cui arriva la seconda guerra mondiale, dirompente come la Bora che spazza la città da est dopo essersi incanalata nei valichi dell’entroterra.
2. SVOLGIMENTO
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, le province di Udine, Trieste, Gorizia, Pola, Fiume e Lubiana vennero occupate dalle truppe del Terzo Reich e raggruppate nell’Operationszone Adriatisches Küstenland (Zona d’operazioni del Litorale adriatico).
In questo panorama fatto di rastrellamenti e Resistenza, Trieste non è solo una città occupata, ma uno snodo ferroviario cruciale nel quale far scorrere i treni colmi di deportati destinati ai campi di sterminio dell’Est. E proprio qui entra in gioco la Risiera di San Sabba, inizialmente usata come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani catturati e poi convertita in Polizeihaftlager (campo di detenzione di polizia) con tre scopi principali:
- punto di raccolta per i detenuti da deportare in Germania o Polonia;
- deposito dei beni razziati ai deportati;
- detenzione ed eliminazione di sloveni, croati, partigiani, detenuti politici, ebrei e Testimoni di Geova.
Per controllare questa macchina di sterminio, vengono trasferiti al campo membri dell’Aktion T4 (il programma nazista volto a eliminare i minorati mentali e fisici) e vari gerarchi provenienti dai campi di concentramento di Treblinka, Bełżec e Sobibór.
In tutto ciò, Haya è tornata a Gorizia e trascorre una vita di relativa sicurezza. Nonostante possieda un cognome di origine ebraica, il battesimo ricevuto alla nascita è un ottimo lasciapassare che tiene alla larga i nazisti. Tutti tranne uno: Kurt Franz, membro delle SS trasferito di recente da Treblinka per gestire la Risiera di San Sabba. Haya, inconsapevole di tutto ciò, se ne invaghisce e presto rimane incinta, ma nel momento in cui rende partecipe l’ufficiale, questo la respinge tirando in ballo l’origine ebraica del cognome Tedeschi e il fatto che presto dovrà tornare in Germania. Abbandonata a sé stessa, Haya decide comunque di tenere il figlio e battezzarlo. Durante una passeggiata al parco, però, complice un momento di distrazione che la costringe ad allontanarsi dalla carrozzina, Haya scopre con sgomento che il neonato Antonio è scomparso.
Mancano pochi mesi alla guerra, e la storia di Haya e del figlio si inserisce in uno dei lati più oscuri del regime nazista e che coinvolge i bambini, ed è qui che ha inizio il finale.
3. CONCLUSIONI
Il programma Lebensborn venne concepito dal gerarca nazista Heinrich Himmler (Reichsführer delle SS) con lo scopo di aumentare la popolazione tedesca di pura razza ariana. Il principio di tutto erano le SS, corpo paramilitare i cui componenti dovevano rispettare le caratteristiche razziali esaltate dal regime. Oltre ai controlli anagrafico-razziali operati anche nel momento in cui un membro avesse deciso di sposarsi, Himmler decise che le SS dovevano mettere al mondo figli che rispettassero i dettami della razza ariana. Fu così che a partire dal 1935 in Germania vennero aperte delle cliniche in cui le mamme considerate “degne” dal punto di vista della razza potevano far nascere, battezzare e crescere i propri figli secondo il culto delle SS. Nel caso una ragazza-madre si fosse rivolta a un centro Lebensborn, e sempre che la nascita fosse considerata “ottimale”, lo Stato era disposto a farsi carico delle cure per un anno, al termine del quale, sempre che la donna non avesse trovato mezzi di sostentamento utili, il figlio veniva dato in adozione a una famiglia “degna”.
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, il progetto Lebensborn si allargò nei territori occupati con l’obiettivo di convincere le ragazze-madri “di razza” (sebbene straniere) a donare i propri figli alla Germania e nascondere, così, il proprio peccato. Insieme a ciò, il progetto si distinse per il rapimento dei ‘figli di guerra’, cioè i bambini nati da soldati tedeschi di stanza nei territori occupati, sempre che rispondessero a un profilo razziale accettabile. Si calcola che il progetto Lebensborn abbia dato il via a un numero che va dai 200.000 ai 250.000 rapimenti.
Una volta finita la guerra, i bambini dei Lebensborn che non avevano trovato nuovi genitori vennero prima bistrattati e poi dimenticati dai propri Paesi d’origine; come testimoniato da una di loro:
«Per cinquant’anni ci hanno fatto tacere. Per cinquant’anni i nostri destini sono stati un argomento tabù. Fino al 1990 di noi non si è parlato, semplicemente non esistevamo. Ma i nostri dossier sono ancora aperti. Lì dentro se ne stanno raggomitolate le nostre vite distrutte. Noi, figli dei Lebensborn, siamo ormai vecchi. Molti di noi non sapranno mai chi in realtà sono. Abbiamo cominciato tardi le nostre ricerche. Nell’orfanotrofio mi versavano l’acqua bollente addosso. Così si lavano gli sporchi bambini tedeschi, dicevano. Un maestro mi ha molestata. Un prete ha detto, propongo la sterilizzazione.»
(Daša Drndić, Trieste: un romanzo documentario, Bompiani, Milano, 2015, p. 389)
Quelli dei Lebensborn, però, non sono stati gli unici rapimenti di bambini attuati nella seconda guerra mondiale. Se da una parte il regime nazista ne fece una questione di razza, la Chiesa cattolica usò la religione.
Secondo una lettera rinvenuta negli Archivi della Chiesa di Francia e indirizzata all’allora nunzio apostolico di Parigi Angelo Roncalli (in seguito papa Giovanni XXIII), i bambini ebrei affidati alla Chiesa o alle famiglie cattoliche e poi battezzati non dovevano essere restituiti a famiglie o organizzazioni ebraiche che ne avessero fatto richiesta. Il rischio era che gli stessi bambini non ricevessero più un’adeguata educazione cristiana (qui puoi leggere la traduzione della lettera pubblicata dal Corriere della Sera il 28 dicembre 2004).
Razza, religione, libertà vera o supposta. Ogni parte ha usato il suo potere in nome di un bene ritenuto assoluto. Peccato solo che non siano stati loro a pagarne lo scotto.
Quindi cosa c’entrano Haya e il piccolo Antonio con tutto ciò? Non è difficile immaginarlo.
FINALE
Lo so, mi sono dilungato più del solito e forse un po’ troppo. A mia discolpa, però, posso dire che non leggevo un libro simile da parecchio tempo.
Di solito, considerando i grandi numeri, nel momento in cui si affronta un saggio storico, tra avvenimenti e lettore esiste una barriera capace di relegare nel passato quanto riportato. È il muro della Storia, del passato, delle storie che vanno via via affievolendosi perché troppo dolorose da raccontare. Poi ci sono i libri come Trieste, e probabilmente il segreto sta nella sua narrazione a metà tra romanzo e saggio. Haya Tedeschi, sebbene fittizia, è una donna che respira e soffre come respiravano e soffrivano Primo Levi, Mario Rigoni Stern e Giulio Bedeschi. La sua è una storia come tante altre, probabilmente come 200.000 altre, e proprio per questo non dobbiamo ignorarla.
Compralo o fattelo prestare, l’importante è che tu legga Trieste. I figli della guerra non sono solo i bambini dei Lebensborn, siamo tutti noi. Come loro siamo stati ridotti al silenzio e dimenticati, perché certe storie fanno troppo male e bisogna cancellarle per trovare la forza di andare avanti. Non importa che ormai siano passati quasi ottant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, perché stiamo ancora pagando il conto di quei sei anni di stragi, rapimenti e bombe, genitori tossici di un’Europa intera uscita in macerie.
Le storie di Trieste e Gorizia, da sempre crocevia contesi, sono quelle di un continente che ha mostrato il suo lato peggiore, come se già la prima guerra mondiale non fosse stata un preludio sufficiente a evitare tutto ciò. Non dimentichiamo questa Storia, perché è reale e ognuno di noi la porta sotto la pelle. Ripensiamoci ogni volta che vogliamo chiuderci in noi stessi, quando guardiamo il prossimo con sospetto. E quando urliamo a sproposito la parola ‘sovranità’ con un entusiasmo simile a quello che ci ha ripagati con devastazioni e rapimenti, ricordiamo che non saremo solo noi a pagare ma anche e soprattutto chi verrà dopo.
Ti ringrazio per essere arrivato fin qui.
E.