
skkstories_9
Me lo ricordo quel giorno, quando tutto è cominciato.
Ero nel mio appartamento al quarantesimo piano di un condominio popolare. Dalla finestra della sala guardavo il panorama offerto dalla città. In lontananza, eccola: la grande nube.
Ma sì, pensai, è solo una tempesta di sabbia. Come mi sbagliavo…
Poco dopo il ronzio assordante avvolse il mondo.
Da quel giorno cambiò tutto. Fummo relegati nelle periferie, a combattere per un angolo di vicolo in cui dormire, a morderci a vicenda braccia e mani per conquistare un cucchiaio di riso crudo. Le vie erano diventate punto di raccolta per i nostri escrementi, risorsa alla quale loro tengono parecchio.
Quello di barista nei loro circoli di polizia era diventato il lavoro più ambito e più pericoloso. Si rischiava di rimanere uccisi per lo stipendio da fame che offrivano per farsi servire da bere mentre giocavano a carte. Eravamo controllati a vista dai loro aguzzini in divisa, ma non osavano dire niente se ci scannavamo a vicenda. Se uno di noi entrava in un bar e spaccava la testa al barista contro le spine delle birre solo per subentrargli, tutto era normale. Che il novello assassino non sapesse per quanto tempo sarebbe rimasto in vita era un elemento che rendeva il tutto più eccitante, per loro. La cosa li divertiva non poco, e andava bene così: la speranza aveva trasformato il genocidio in un gesto quotidiano.
C’è forse uno spettacolo più gradito per il potente di turno?
Io mi trovo tra queste quattro mura per aver spiaccicato uno di loro. Lo so, non è stata una grande mossa. Sarà stato pure il nuovo ordine, ma i treni facevano comunque schifo. Sarebbe stato molto meglio sfogare la mia frustrazione su un mio simile. Avrei ricevuto una medaglia al merito.
Però non si sta male, lo ammetto. Forse è una fortuna essere finiti qua dentro: il cibo è decente, molto abbondante, le celle confortevoli. Non devo svolgere alcun tipo di lavoro: i campi preferiscono coltivarseli loro, riservandoci volentieri prodotti freschi e succulenti. Non c’è nemmeno bisogno di allevare il bestiame. La portata principale, qui, consiste nei nostri morti, cucinati in qualche modo da altri morti che attendono solo di venire cucinati a loro volta. E a lungo andare la carne umana non è male.
Almeno qui ho la certezza di potermi nutrire e, a fine giornata, stendermi su un letto tutto mio. Certo, fai parte del loro sistema di sostentamento, ma sempre meglio che morire per strada. Molti di noi sono arrivati alla conclusione che è preferibile piegarsi, così da rimanere vivi.
Io non so ancora cosa pensare. So benissimo che ci nutrono a volontà solo per potersi godere i nostri escrementi, la loro ricchezza. So benissimo che nel giro di qualche decennio il carcere produttivo sarà il destino di tutti. E ormai mi sono rassegnato anche al fatto di non essere considerato più di un animale da macello, intercambiabile con facilità una volta assolto il mio compito.
So, però, che ho rinunciato all’ora d’aria concessa dal sistema. Certo, mi sono rassegnato a tutto, ma non riuscirei mai ad alzare lo sguardo verso l’azzurro. Sono troppi i ricordi legati a esso.
Per un periodo avevo anche provato a fare come tutti: sfruttare l’ora d’aria per bisbigliare insieme trame di vendetta al fine di sovvertire il nuovo ordine. Tuttavia, la vista del cielo inquadrato tra le alte mura del carcere era troppo. Era difficile riuscire a pensare che quell’azzurro se lo stessero godendo loro. Difficile realizzare che fosse questo il futuro riservatoci dal ronzio che notte e giorno risuona nelle nostre orecchie.
Preferisco essere parte del sistema. Farmi piccolo piccolo e assolvere i miei compiti. Non sono certo il modello perfetto di essere umano, incasellato e rassegnato. Però mi fa sorridere pensare che, fino a pochi anni fa, per liberarsi di un insetto bastava impugnare la paletta e colpire con forza. SPLAT!
E.
(soundtrack: Queensrÿche – Welcome To The Machine)