Magyar Perspectives

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Se ti interessa, qui trovi la colonna sonora.

_intro_

Ogni partenza è un arrivo.
Ogni arrivo è una partenza.

Per quanti punti fermi una persona possa e voglia fissare come caratteristiche essenziali della sua personalità, l’unica certezza è che ogni passo compiuto è insieme arrivo e partenza. La meta, il nostro obiettivo, è solo il punto di partenza per un arrivo ancora da raggiungere.

L’ultimo viaggio a Budapest mi ha lasciato la testa colma di parole. A volte semplici e altre più complicate, queste rimbalzavano da una parete del cranio all’altra impegnando il viaggio di ritorno.
La situazione era favorevole: 12 ore di autobus durante le quali io e mia moglie abbiamo percorso le sterminate pianure ungheresi, i dolci declivi sloveni e il Nord-est italiano in tutta la sua lunghezza. Che scelta avevo se non leggere un libro, dormicchiare un po’ e lasciare così che le parole si sfoltissero da sole?
Una volta scesi dall’autobus in una Verona immersa nel buio invernale, le poche parole rimaste erano cristalline: ‘catena’, ‘mercato’, ‘freddo’, ‘metrò’. Ognuna racchiude un particolare ricordo, e insieme formano un poker di capisaldi che costituisce il mio legame indissolubile con la capitale ungherese.

Ci ho messo un po’ a trovare la situazione ideale per scrivere, e finalmente ce l’ho fatta.

1. CATENA

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soundtrack: Fryderyk Chopin – Nocturne No. 20 in C-Sharp Minor, Op. Posth.

Se solo penso alla fortuna che ho avuto, non posso fare a meno di sorridere: non è stato un caso che io sia riuscito a tornare a Budapest appena prima che la pandemia da Covid-19 avesse inizio, non può essere. Eppure eccoci lì, a tre mesi da un lockdown che ridusse le città ad agglomerati vuoti e silenziosi, io inginocchiato a leggere il mio amore riversato su carta e lei seduta ad ascoltare le mie parole. Il ‘sì’ che ne è seguito non è stato solo il consolidamento del nostro rapporto come coppia, ma una dichiarazione d’amore alla città che avevamo davanti agli occhi. Budapest non era un semplice contorno per la proposta di matrimonio, ma insieme a noi la protagonista.

Budapest non è una città come le altre, non per me almeno, e non posso ignorare il legame che ci unisce. Le sue strade e piazze non sono solo semplici soluzioni architettoniche calcate ogni giorno da centinaia di migliaia di persone, ma spazi che mi parlano una lingua che solo io e lei possiamo comprendere, quella dei ricordi, e ogni volta che vedo il tramonto riflettersi sulle acque del Danubio sento di essere a casa; a dirla tutta mi basta scendere dall’aereo, un primo respiro e già mi tornano in mente i ricordi degli anni in cui ho vissuto nella capitale ungherese.

Incatenato, ecco come sono. Il legame che mi tiene stretto a questa città è una catena dagli anelli spessi e cementata a un muro per non farmi scappare. Una simile catena, però, può essere utile come anche nociva, e se da una parte mi rallegro di aver stabilito una connessione simile, dall’altra ci sono momenti in cui vorrei farne a meno. Gli anni passati lì sono senza alcun dubbio una fortuna e una fonte di ricchezza e cultura personale dal valore inestimabile, ma sono anche un peso difficile da sopportare in termini di lontananza.

Qual è la mia casa? Domanda che diventa sempre più pressante con il passare del tempo. Non posso ignorare le mie origini, come anche tutti i luoghi in cui ho vissuto. Friuli, Budapest, Lazio e ora il Veneto, a quale di questi appartengo? La risposta non è semplice.
Per come la vedo io, un essere umano non è il luogo da cui proviene. Ognuno di noi, prima di tutto, è il suo vissuto, ed è inutile categorizzarlo in base alla sola provenienza geografica. «Ah, quello è un africano» oppure «I tedeschi sono tutti uguali» (giusto qualche esempio) sono affermazioni basate su un’ignoranza difficile da estirpare. È facile trovarsi dalla parte della maggioranza e sentirsi in qualche modo privilegiato per diritto di nascita, ma hai mai provato a trovarti dall’altra parte? Io sì, e ti assicuro che non è piacevole. E non sto parlando della mia permanenza in Ungheria, ma del mio ritorno in Italia. Quando da Budapest mi trasferii in provincia di Roma ero lo zingaro ungherese, quando toccò al Veneto ero il terrone venuto da Roma. Etichette, pregiudizi e stereotipi, eccoli qui.

Col tempo sono riuscito a ritagliarmi il mio posto, ma non è stato facile. Ho imparato che la mia diversità non è una pistola alla tempia pronta a distruggermi, ma uno strumento che posso utilizzare per guardare e raccontare gli altri. Io non sono friulano, non sono ungherese, non sono laziale, non sono veneto. Io sono il mio trascorso, il mio presente e ciò che faccio per affrontare il futuro. E forse è proprio questo il più grande insegnamento donatomi dai miei anni a Budapest, una catena dagli anelli spessi che ogni giorno mi ricorda un tempo in cui ‘casa’ era una parola rivolta al presente e non a un passato utilizzato dalle altre persone al solo fine di schernirmi.

2. MERCATO

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soundtrack: Fryderyk Chopin – Polonaise No. 6 in A-Flat Major, Op. 53, “Heroic”

Chi l’ha detto che il cibo è semplice nutrimento?
Probabilmente quella che sto per fare è una considerazione figlia della fortuna di essere cresciuto in una famiglia in cui avevamo sempre qualcosa da mettere in tavola; tuttavia, ho sempre distinto il nutrimento dal mangiare.
Quello di nutrirsi è un atto necessario alla sopravvivenza. Quando il corpo chiama, si può soddisfarlo cacciandosi nello stomaco la prima cosa che capita a tiro. Il nutrimento è utile per combattere la fame, e per questo credo sia importante imparare ad apprezzare tutto e sprecare il meno possibile.
Mangiare, invece, è un altro discorso. Il suono stesso mi suggerisce un’idea di goduria e appagamento difficile da raggiungere con il solo nutrimento. ‘Farsi una bella mangiata’, ‘andare a mangiare’ e ‘mangiare fuori’ sono espressioni legate al piacere del cibo, al rituale della sua preparazione o comunque a un’occasione speciale; il pranzo della domenica è una di queste, quasi una ricorrenza in cui ci si prende il tempo necessario per godersi un pasto con la dovuta calma.
Il concetto stesso di ‘cibo’ vive il suo dualismo: da una parte viene inteso come nutrimento per il corpo, dall’altro come nutrimento per l’anima in termini di piacere. Il nostro cervello, poi, ci mette del suo, in grado com’è di ricordare profumi e sapori e associarli a particolari esperienze o immagini.

Se penso ai primi ricordi che possiedo in termini di cibo, non possono mancare gli gnocchi al ragù della nonna o la sua polenta e frico; non ne ricordo solo l’aspetto ma anche il sapore, tanto che sono ancora termini di paragone per giudicare ciò che ho nel piatto (oltre a essere immagini confortanti in cui ogni tanto mi perdo con piacere).
Esclusi questi, i primi veri ricordi che ho sul cibo risalgono al mio periodo ungherese.

Al contrario di quanto si possa pensare notando la mia stazza o vedendomi mangiare, da piccolo non avevo un buon rapporto col cibo. Mi piacevano poche cose, non amavo le verdure e, in genere, non ero propenso ad assaggiare pietanze nuove. Incarnavo la disperazione della mamma, costretta quasi sempre a ripiegare alla pasta al pomodoro per farmi contento. Il vero dramma, però si consumava nel momento in cui non avevo scelta. Il pasto poteva durare anche un’ora: ogni singolo boccone rimbalzava da una guancia all’altra con la rapidità di un bradipo che non sa quale ramo scegliere per il pisolino pomeridiano, e arrivato il momento di deglutire lacrimavo in seguito a involontari conati di vomito. Se poi mi capitava una porzione di pesce vero (non bastoncini impanati) e su questo era rimasta qualche spina, mi trasformavo in un detective in grado di spulciare con pazienza ogni filamento di carne finché non ero sicuro di averle trovate tutte. Tre parole: incubo a tavola. Immagina, quindi, cosa dev’essere stato per me trasferirmi in un luogo in cui le cucine erano dominate da profumi e sapori che non conoscevo.

Come dimenticare i primi contatti avuti all’asilo con la cucina ungherese. La prima volta che assaggiai la zuppa di gulyás fu drammatica: poco avvezzo al piccante, la mia bocca prese fuoco a tal punto che cominciai a correre per la classe invocando l’aiuto dei pompieri; per non parlare delle merende a base di gambi di sedano e vajkrem (un formaggio fresco spalmabile amalgamato con burro e panna) o della pasta all’uovo con marmellata e zucchero a velo. Pasto dopo pasto, però, mi abituai ai nuovi gusti, anche perché o scendevo a patti oppure facevo a meno di mangiare. Diventai un estimatore del succo di mela (all’epoca conosciuto pochissimo in Italia), dello strudel di ciliegie, del marzapane e del vajkrem, e passo dopo passo cominciai ad apprezzare il profumo della paprika. Ho usato il termine ‘profumo’ non a caso, perché il primo e vero punto d’incontro con la cucina ungherese è stato proprio l’olfatto.

Nei tre anni passati a Budapest spesso accompagnavo la mamma nei mercati cittadini, e lì il profumo era tutto. Verdura, paprika, ciccioli di maiale, salumi affumicati, frittelle, formaggi, il miscuglio era tale da creare un effluvio unico e appetitoso che tutt’oggi riconosco quando mi capita di passare qualche ora al mercato centrale di Fővám tér. A ogni passo mi lascio avvolgere dai ricordi e la tentazione è quella di comprare tutto ciò che capita a tiro. Questo mercato è il punto zero in cui ho sviluppato il mio amore per il cibo in generale, e non tanto a partire dalla cucina salata ma da quella dolce. Un dessert in particolare: palacsinta.

Frequentai i primi due anni di scuola elementare presso l’Istituto Italiano di Cultura di Budapest. Arrivata l’ora di pranzo e quindi la fine delle lezioni, qualche volta la mamma coglieva l’occasione per portarmi al mercato e fare qualche spesa. Giusto il tempo di una breve passeggiata nel caos di Pest e ci immergevamo nel profumo di verdura e paprika. Prima di fare la spesa, però, si doveva pensare al pranzo, e allora salivamo al piano superiore e compravamo delle palacsinta da mangiare al volo. Niente di elaborato, le palacsinta sono delle crespelle arrotolate e ripiene di qualsiasi goduria si possa immaginare (dolce o salata). Le mie preferite erano quelle ripiene di formaggio quark, uvette, cannella e una spolverata di zucchero a velo per guarnire il tutto.

Ci sono stati altri dolci e non che mi hanno fatto innamorare della cucina ungherese – come i kurtőskalács (rotoli di pan dolce cotti sui carboni) o le lángos (frittelle con sopra panna acida, formaggio, salumi o anche marmellate varie) – ma le palacsinta hanno il posto d’onore, e forse proprio perché per me sono l’esempio perfetto del dualismo di cui vive il concetto di cibo: erano sì il mio pranzo, quindi un nutrimento, come anche un piccolo piacere che segnava la fine della scuola e il tempo passato al mercato a perdermi nei profumi della mia nuova casa.

3. FREDDO

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soundtrack: Fryderyk Chopin – Nocturne No. 1 in B-Flat Minor, Op. 9 No. 1

Alza la mano se una mattina ti sei svegliato e hai visto il giardino coperto da mezzo metro di neve. Cosa c’è, rimani immobile?
A meno che tu non viva in montagna, in Italia è difficile assistere a tale fenomeno. La neve è diventata un miraggio e in pianura è sempre più raro vedere anche solo un po’ di ghiaccio per strada. Se da una parte queste mancanze ci hanno tolto delle scomodità di cui facciamo volentieri a meno nel momento in cui dobbiamo prendere la macchina e metterci in strada, dall’altra si perde la magia legata all’inverno. Penso anche solo a camminare nel freddo, il fiato che si condensa, per poi tornare a casa e gustarsi quel piacevole torpore capace di sciogliere le membra intorpidite.

Io sono sempre stato un amante del freddo. L’estate, soprattutto se umida, mi toglie il fiato, mentre il freddo non mi crea grossi problemi. Certo, mi dirai, dici così perché non hai mai provato il vero freddo, quello degli inverni siberiani, quando la steppa si trasforma in una distesa bianca priva di contorni, quando solo uscire di casa vuol dire rischiare la vita.
No, lo ammetto, non ho mai provato i 40 sottozero, ma nei miei inverni a Budapest sono arrivato ai -20°C. Lungi da me trovare un punto di contatto in ogni cosa, però penso che la mia capacità di sopportare il freddo sia in qualche modo legata anche all’esperienza ungherese.

Di solito nevicava tra dicembre e gennaio, a volte anche febbraio, e quando iniziava sembrava non dovesse smettere mai. Giorni e giorni di fiocchi che si accumulavano l’uno sull’altro, e tuttavia la città rimaneva viva. Le strade erano sempre pulite e la vita continuava giusto un po’ più lenta del solito. Saltavamo al massimo uno o due giorni di scuola, sempre che la tormenta fosse davvero inaffrontabile, ma per il resto ci si muoveva senza troppi problemi.
L’unica pecca era lo sbalzo termico tra interno ed esterno. Siamo i primi a farci gioco della mania statunitense di infischiarsene dei consumi tenendo climatizzatori e termosifoni al massimo, ma anche in Ungheria non scherzano. Quando si entrava in un qualsiasi ambiente, ristorante, negozio o casa che fosse, in un battito di ciglia si passava da vento, ghiaccio e neve a termosifoni in ghisa che pompavano calore come una vecchia locomotiva a diesel di produzione sovietica; guance e orecchie prendevano fuoco e per qualche minuto sembrava di essere tanti piccoli folletti di Natale usciti da un’illustrazione risalente agli anni Cinquanta. Il vestiario, poi, non aiutava affatto. Strato su strato, arrivando anche alla tuta da neve per noi bambini, si faceva di tutto affinché il freddo non trovasse la via per provocare un qualsiasi malanno o, in casi estremi, assiderare un arto o due.
So benissimo che simili temperature sono difficili da immaginare per chi non le ha mai vissute, quindi proverò a usare un ricordo. Quando arrivava la domenica, inverno o estate che fosse, si usciva per fare un giro; eravamo sempre curiosi di scoprire e conoscere luoghi nuovi, quindi rimanevamo tappati in casa solo se le condizioni esterne erano davvero estreme. Una volta, ricordo che stavamo attraversando il ponte Margit in direzione di Pest, il papà mi invitò a guardare il Danubio sotto di noi. L’enorme massa d’acqua in movimento era costellata di numerose lastre di ghiaccio coperte di neve. Non avevo mai visto uno spettacolo simile, e rimasi come imbambolato. Ora, considera che in centro città il Danubio è largo tra i 400 e i 500 metri e ha una portata media di 2350 m3 di acqua al secondo. Riesci a mettere a fuoco questi dati? Bene, ora pensa al freddo che doveva esserci per riuscire a ghiacciare la superficie di un fiume del genere; è una visione difficile da dimenticare, e da quel giorno ho sempre associato la parola ‘freddo’ al ghiaccio sul Danubio.

Forse è proprio per questo che per me l’inverno non ha una connotazione negativa. Amo il freddo, amo il profumo della legna che arde e amo lasciarmi avvolgere dai suoi colori. Ricordo ancora con piacere i momenti in cui salivamo in macchina e, una volta oltrepassati i confini amministrativi della città, la puszta (la grande pianura) aveva l’aspetto di una linea bianca e terra e cielo si confondevano all’orizzonte. Le stesse città dell’Est, poi, credo siano le mete ideali per un viaggio invernale. Allegre e colorate d’estate, certo, ma solo con il freddo e il grigio del cielo esprimono la loro tipica malinconia perfetta per una sonata di Chopin.
Budapest è bella sempre, per carità, ma i suoi inverni sono ricchi di un calore che nemmeno l’estate è in grado di esprimere. Il suo freddo non ha solo il colore del ghiaccio, ma vive delle sfumature e ombre in continuo movimento di un fuoco che arde nel camino.

4. METRÒ

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soundtrack: Fryderyk Chopin – 24 Preludes, Op. 26: No. 15 in D Flat Major. Sostenuto “Raindrops”

La metropolitana è un mezzo che appiattisce. Dal momento in cui scendi sottoterra e sali sul treno, il tempo si riduce a tal punto che perdi la concezione dello spazio; puoi fartene un’idea consultando la pianta affissa sopra i portelloni scorrevoli, ma questa non rispecchia mai le reali proporzioni di una città. Gli unici punti di contatto sono le stazioni, sempre che queste siano distinguibili le une dalle altre. Arrivo. Spostamento. Partenza. Ogni immagine legata alla vista, reale o reminiscenza che sia, viene annullata da una serie di gallerie tutte uguali. Il metrò è comodo quando si deve risparmiare tempo e struggente quando arriva il momento di andarsene.
A meno che tu non stia percorrendo la Linea M1 (la più antica d’Europa dopo quella di Londra) da Vörösmarty tér a Hősök tere o viceversa, Budapest non è da meno. Metallo, pavimenti di piastrelle scure, luci al neon, odore di ruggine umida e fili elettrici, la metropolitana è un’estraniazione dalla superficie.

Eccoci lì, io e la mia futura moglie, in lenta discesa sulla scala mobile, in piedi da poco più di mezz’ora e la palpebra ancora calante di chi si è svegliato alle 5 di mattina. Non potendo prendere l’aereo, prezzi folli per il ritorno, abbiamo optato per il pullman. 12 ore di viaggio (sì, dodici) attraverso Ungheria, Slovenia e Italia a un prezzo umano. Un ultimo respiro dedicato alla nostra amata città, vuota e ancora immersa nel buio, e poi giù nel sottosuolo. I bagagli pesano, ma non è un problema: la metropolitana ci porterà fino alla stazione degli autobus poco oltre lo stadio. Qualche minuto di attesa e il treno ci si ferma davanti.
Seduto, tengo il conto delle stazioni. È così che deve finire il nostro viaggio, con una semplice corsa in metropolitana? Sento che sto per pentirmi di aver scelto il ritorno in pullman, e allora mi lascio ipnotizzare dai pannelli di cemento che scorrono oltre i vetri. Rivedo i giorni appena passati, sempre troppo pochi ma sufficienti per calmare i ricordi che negli ultimi mesi si agitavano all’interno della scatola cranica. La proposta di matrimonio sul Bastione dei Pescatori, le passeggiate serali sul lungo Danubio, il centro città ancora addobbato per il Natale, il freddo pungente tendente al ghiaccio e il vino speziato per tenerlo a bada, le bancarelle ricche di verdura e salumi affumicati, il cibo che sa di un passato ancora presente. Mano a mano che le scorro, le imprimo in un nuovo volume da costudire in archivio. L’unica cosa che mi dispiace è non aver potuto salutare a dovere la città, ma di certo questa non sarà la nostra ultima volta tra le sue strade. Ce ne saranno molte altre, per lo meno me lo auguro, e sarà sempre stupendo.
La voce registrata che annuncia l’arrivo in stazione mi risveglia dal torpore. Alzo gli occhi in direzione dei led e sotto il nome della stazione appare in rosso una scritta scorrevole che non avevo notato prima. Subito dopo una sequenza quasi interminabile di consonanti e vocali ungheresi, impossibile comprenderla, arriva il messaggio in inglese: «Linea interrotta per lavori alla prossima stazione». Attiro l’attenzione della mia fidanzata, che nel frattempo aveva chiuso gli occhi, e le comunico la novità. Non preoccuparti, le dico, per fortuna siamo partiti con molto anticipo.

Arriviamo alla stazione successiva e il treno non dà segno di ripartire. Messaggio confermato. Scendiamo e prendiamo la via per la superficie.
Siamo in periferia, circondati da prefabbricati di epoca sovietica e qualche edificio più vecchiotto, e nonostante l’ora il viale a sei corsie pullula già di automobili che sfrecciano da una parte all’altra. Le valigie pesano, sì, tuttavia non è un problema. Mancano circa due chilometri alla stazione degli autobus, e almeno ho il tempo di rivolgere un ultimo sguardo alla mia città. Preferirei farlo in centro, ma anche qui va benissimo. Nonostante i palazzoni moderni, non posso fare a meno di confermare il mio amore per questa città. Perché Budapest è anche questo, un continuo contrasto tra il passato e il presente, tra opulenza e miseria, tra dittatura e democrazia, e in mezzo ci sono io per raccontarla. Anzi, ora siamo in due. Grazie, lavori non identificati, per questa ultima camminata. Ne avevo bisogno.

L’autobus parte e procede lento in direzione ovest. Nella prima mezz’ora di viaggio attraversiamo prima Pest, poi il Danubio e io non riesco a dormire. Il naso incollato al finestrino, faccio il conto degli angoli impiantati nella memoria da quasi trent’anni; del resto, era il mio esercizio preferito da bambino: viaggi interi passati a guardare attraverso il vetro, e intanto memorizzavo particolari. Grazie ancora, lavori non identificati, per questa ultima carrellata. Ne avevo bisogno.

BUDAPEST.
Lasciatoci alle spalle l’ultimo cartello bianco, le palpebre si fanno pesanti. È il momento di recuperare qualche ora di sonno e di lasciare all’autista il compito di portarci a casa. Percorrendo un’autostrada che si snoda su una pianura che si perde all’orizzonte, sogniamo già il nostro ritorno.

_epilogo_

Ogni arrivo è una partenza.
Ogni partenza è un arrivo.
L’unica cosa che possiamo fare è immagazzinare quanto più possibile. Un giorno sarà utile prima di tutto a noi stessi.

E.


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2 risposte a "Magyar Perspectives"

  1. Ema fantastico l’ho letto tutto d’un fiato….e anche nei miei ricordi c’è più di qualche angolo di Budapest e i profumi di questa città che grazie a voi abbiamo avuto la fortuna di vedere…😜🥰🥰🥰🥰

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